UN COMUNISTA A VIGEVANO – Viaggio dell’anima

P1000728di Carlo Santagostino

ITACA
“Se cerchi la tua strada verso Itaca Spera in un viaggio lungo Avventuroso e pieno di scoperte I Lestrigoni e i Ciclopi non temerli, non temere l’ira di Poseidone.
Pensa a Itaca, sempre, il tuo destino ti ci porterà. Non hai bisogno di affrettare il corso, fa’ che il tuo viaggio duri anni,bellissimi, e che tu arrivi all’isola ormai vecchio, ricco di insegnamenti appresi in via.
Non sperare ti giungano ricchezze:
il regalo di Itaca è il bel viaggio, senza di lei non lo avresti intrapreso, Di più non ha da darti.

Costantino Kavafis

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Lo abbiamo accompagnato al cimitero, eravamo un gruppo di amici.
L’Emilio ci ha lasciati così, senza neanche salutarci. Era il suo stile. Gli chiesero: ” fai un discorso”, rifiutò, non se la sentiva proprio. Le commemorazioni funebri finiscono quasi sempre per essere retoriche. Poi era troppo triste per essere lucido, se ne era andato l’amico di una vita, il compagno di mille battaglie e, lui lo sapeva, Emilio non avrebbe comunque gradito ghirigori e rituali di circostanza.
Lo aveva sentito in agosto per invitarlo a venire a cantare le sue canzoni al circolo, ma l’Emilio non riusciva a parlare. Gli disse a fatica: “Ora non sto bene , vado a fare degli esami, ci sentiamo a settembre.”
Non lo sentì mai più.
Brutta, bruttissima giornata ed anno “horribilis”, quell’anno. Se ne era già andato Riccardo, e , di lì a poco, ci lasciò anche Antonio, un fratello più grande, un maestro di vita. Ricordava le loro risate notturne, stupidaggini sotto le stelle, lungo le spiagge deserte di Calabria ed il sole che bruciava la pelle.
Poi li seguì anche Domenico, che sembrava indistruttibile nella sua frenesia di cura agli anziani. Se ne tornò piano piano, pestando la ghiaia del vialetto. Procedeva a fatica: aveva male alla gamba e soprattutto alle caviglie. Ormai era sempre così, doveva rassegnarsi.

Nella penombra di quel precoce tramonto, mentre la luce a poco a poco scemava dietro la linea dell’orizzonte , sostò per un attimo al sepolcro dei suoi. Poi riprese il cammino . La solitudine diventa, con il passare del tempo. la vera compagna della sopravvivenza. Non c’è niente da fare, così van le cose. E’ questo il destino. Tutto ciò gli affollava confusamente la mente in quel giorno di merda.
Ormai, pensò, scappata era la vita, tra gioie e dolori strazianti: solo tanti ricordi piantati lì dentro l’anima.
E’ andata così, si disse, come per tutti, senza che si riesca a capire nemmeno il perché. Salì sulla macchina, parcheggiata vicino e parti’. Era stanco. Francamente non ne poteva più: ne aveva proprio piene le pallle!
L’auto stentava sulla strada sterrata.  In quell’ “ora che volge al desio” già era calato il buio della sera. Il luogo cui era approdato non era ormai più lo stesso di un tempo. Era molto cambiato. Sterpaglie ed alberi spogli. Ricordava la spiaggia di sabbia, la polla di acqua sorgiva, il fiume che lento scorreva nell’ansa che si era formata. Non aveva scordato l’estate bollente e l’afa ed il profumo di sesso. Aveva il futuro davanti, quello stato di placida calma in cui ti senti padrone del mondo. Momenti perfetti, forse mai più così intensamente vissuti.

Quando scese dalla riva nel fiume,sentì l’acqua gelargli le membra. Ma quel freddo tremendo non fermava la mente. Ebbe paura perché c’è un incomprimibile istinto in ciascuno di noi. Era un vecchio oramai. Spaventato da sé cercò di uscir fuori da lì dove si era ficcato. Si arrampicò lungo la riva scoscesa e si sedette affannato , coi piedi ed i polpacci bagnati. Fu così che il pensiero volò e non riusciva a fermarlo.

L’ACQUA MINERALE GASATA E LA LOTTA DI CLASSE
PAIDIA o della fanciullezza.

Gli occhi curiosi vedevan dinnanzi l’edicola del giornalaio, l’incrocio con il semaforo appeso lassù, in alto, in mezzo al crocicchio, e la chiesa. Svelte scivolavan le bici sopra la via lastricata, non appena suonato il”corno” della pausa lavoro . Subito ferme al semaforo rosso. Poi, non appena comparso che era il verde, ripartivano via, di corsa. Tute blu che si eran fatte bisunte, mani grandi, nere di “morcia”, callose, che stringevano forti quei loro manubri. Tanti erano quegli operai in bici da occupare l’intera metà della strada, quasi fosse il plotone del giro d’Italia. Chissà che farà quel signore dalla fronte stempiata, un po’ grigi i capelli, dove vive, chi ci sarà ad attenderlo a casa e quelle ragazze, subito dietro di lui, che ridono allegre e che, pedalando, lasciano credere, alzate le gonne sopra le nude gambe che restano un poco scoperte, quali strane malizie potranno mai raccontarsi: amori, tradimenti, frivole vaghezze di una gioventù di nuova speranza. A lui piaceva, se pur bambinetto, figurarsi la vita degli altri. Cavalcava così la sua immaginazione infantile. Ma anche dopo , da grande, gli rimase per sempre il vizio del sogno o visione dell’altrui esistenza: quali passioni, dolori o indifferenza potesse percorrerla ,quali i gesti, le abitudini, le loro cose di ogni giorno. Chissà se saranno felici. Molto più avanti negli anni, talvolta, incrociando la fila dei palazzoni tutti uguali della periferia milanese , guardando, lassù, le luci accese alle finestre delle abitazioni, nella sua testa partiva subito il film dei gesti e degli atti che in quel momento si sarebbero compiuti oltre quelle stesse finestre. Pensava alle vite che si snodavano là , al decimo piano, dietro quelle tende scostate o quelle tapparelle alzate. Perché questo assurdo viziaccio?.Forse perché non si bastava e non riuscì mai a bastare a se stesso.

1946

La guerra era appena finita . La storia obliqua comincia qui. Solo due eran le stanze della casa al piano secondo, dall’una si entrava direttamente nell’altra. Cucina e camera da letto in un palazzo “a ringhiera”. La stufa a legna e carbone scaldava la cucina. Niente bagno,niente gabinetto, situato più avanti, lungo quella ringhiera ed era comune per tutti quei quindici circa che vivevano lì. D’inverno era un problema lavarsi. Tutto molto sommario: un catino e l’acqua sulla stufa a scaldarsi. Un grande secchio pieno d’acqua lasciato al sole per l’intera giornata era l’usanza d’estate. Al tramonto l’acqua, si faceva tiepida, gradevole al tatto e la madre lo immergeva. Ci stava in piedi tutto intero. Lui era abbastanza felice. Gli elettrodomestici neppure esistevano. Quando il caldo si faceva pesante , il padre andava alla casa del ghiaccio,ne comprava un po’ e poi lo metteva dentro una “ghiacciaia” di finto ciliegio,sistemata in cucina. Lì i cibi restavano freschi per molte ore. Del resto, di sicuro, non si comprava molta roba da mangiare, non si facevano

scorte. Per fortuna lui dormiva in cucina, in un divano-letto, così d’inverno non pativa freddo. Godeva del caldo della stufa. Lungo quella ringhiera che correva sui quattro lati del palazzo, disegnando una specie di quadrilatero e formando un piccolo slargo o terrazzino sul lato estremo sinistro, si consumarono i giochi dell’intera sua infanzia.
Piero, Bruno, Ezia furono i compagni di quell’età che, nella vita successiva, perse di vista e neppure seppe più che fine avessero fatto. Il cielo quadrato: ecco il ricordo di allora. Così lo vedeva guardando all’insù, quando non c’erano nubi . Uno spicchio di spazio celeste sopra il cortile: questo gli era concesso. Un po’ come in carcere, quando è permesso di uscire all’aperto, per godersi quell’ora di aria che spetta. La madre ogni tanto diceva di sé di essere stata, da giovane, una bella donna. Non era vero. Bassa, naso pronunciato ed una testa troppo grossa. Ecco com’era  davvero. Era altera, autoritaria e ambiziosa. Dal vestire elegante e snob: confidenze a nessuno. Niente veri amici, niente ospiti in casa. Aveva vissuto in campagna tra rane e risaie, fatto la mondina e trapiantato il riso, ma raccontava i fatti della sua gioventù come se avesse abitato in luoghi meravigliosi, pieni di principesse, castelli e teatri ove si tenevano sontuose feste da ballo. Diceva di quel bambino che era bello: tutto sua madre. Anche questo non era vero. Lei era nera, di pelle scura, occhi marroni, come certi lomellini che, chissà perché, sembrano meridionali. Lui era biondo, gambe lunghe, occhi azzurri, come il padre, il suo nonno paterno ed i parenti di lui. Mai un abbraccio, pochi i baci, rare le carezze. In compenso lui non poteva saltare, correre, giocare a pallone, fare qualsiasi tipo di sport. Che diamine! Avrebbe potuto farsi male, anzi, peggio ,ammalarsi. ” Tu non sei come gli altri, non puoi fare queste cose, tu ti ammali, tu non sai cosa può capitare ai tuoi polmoni”.
Poi gli toglieva la maglia, lo riempiva di borotalco e gliela cambiava, imprecando: “Ti tam farè murì”. Tu mi farai morire. Frase che diventò un “mantra”, perché se la sentì ripetere in ogni fase della sua vita: da adolescente, ma anche da giovane e persino da adulto. La donna morì a ottantasei anni.
Quando cominciò a frequentare le scuole elementari, l’amore della madre si fece persino più grande. Lui doveva avere per forza un profitto eccellente. Quando questo non avveniva, i rimproveri erano assicurati. “Ma, mamma, c’è chi è andato peggio di me” tentava di giustificarsi. ” Ti ad devi guardà avanti, no indre’!”. Tu devi aspirare a raggiungere i migliori, era l’insegnamento impartito. Insomma una sana invidia doveva essere la guida nella vita. Ed ecco che, un bel giorno, come massima espressione di fiducia, si trovò il quaderno con le pagine numerate.”Così non potrai strapparle a mia insaputa” poi gli spiegò. Smisurata ambizione, desiderio di rivincita con la vita, lui il mezzo del riscatto sociale: questa era la donna. Tre per tre, quattro per cinque, sette per sei, otto per otto, nove per sette… Era inverno, un freddo cane. L’immancabile madre al fianco, il viso tutto coperto da una enorme sciarpa, lei gli faceva ripetere le tabelline a memoria e così, di seguito, fino ad entrare nell’edificio scolastico dove, percorso il corridoio, lui poteva finalmente sedersi al suo banco nell’aula. Ricordava il cammino che faceva a piedi, da casa alla scuola. Un tratto abbastanza breve. Subito all’inizio, il portone prospiciente la strada sempre aperto, si incontrava un cortile ove si poteva vedere un maniscalco al lavoro che ferrava i cavalli, un ometto in camicia con il grembiule di cuoio, munito di martello o “similia” che, sollevata la gamba del cavallo, picchiava forte per saldare bene lo zoccolo. D’altra parte, in quei tempi ancora circolavano i carri trainati dai cavalli, oltre ai camion, con musi lunghissimi, giardinette, Lancia “Appia” per i più ricchi. Così gli andava allora la vita tra un dettato, un problema o una equivalenza, una poesia da ripetere all’infinito, una sgridata ed uno scappellotto. “Addio monti sorgenti dell’acque ed elevati al cielo, cime inuguali note a chi è cresciuto tra voi…” indimenticato brano manzoniano imparato all’età di dieci anni e rimasto per sempre lì nella sua memoria a imperituro ricordo, impareggiabile esempio di straordinaria e struggente prosa romantica. Ora facciamo l’esame di ammissione alle medie ,un bacio, chissà, forse domani. Ma anche dopo, alle medie come al liceo, gli esiti scolastici eran vissuti come una vera ossessione. Alla fine del lungo percorso dall’esito, per fortune felice, gli disse: “Hai visto che alla fine ce l’ “abbiamo” fatta, se non era per me tu da solo non avresti concluso niente.” Lui allora pensò tra sé, senza dirlo, che a tradurre Tacito e Cicerone, Omero ed Euripide forse era stata lei , lui solamente il mero strumento esecutivo. E, forse, chissà, era davvero così. In questo modo nacque, un poco alla volta, subdolamente , quel gentile compagno di tutta una vita: il senso di colpa e della propria persistente inadeguatezza.
Gli attacchi di panico vennero dopo. Solo lei riusciva a farli passare, a dargli, nel vortice della paura,l’approdo sicuro di una quiete interiore. Ma doveva venire il distacco e fu duro e traumatico. Nè poteva esser diverso. Rimase però la paura di non essere amato ed un bisogno d’amore che mai fu sopito e che fu il senso di tutta una vita, spesa, senza riuscirci, a cercare di non dare dolore, se non che a se stesso, a non far del male a nessuno, anche se fu impossibile. Era quasi la fine di settembre. Fu svegliato presto quella mattina. Era fresco, non freddo. Una di quelle giornate che talvolta l’autunno regala alla nostra terra piana di Lomellina. Un sole tiepido riscaldava la mattinata. Correva eccitato per saltare sul carro,mentre la madre gli urlava le ultime raccomandazioni. Lei non sarebbe venuta; era nata in campagna, ma la odiava e non ne voleva sapere di stare una intera giornata in mezzo ai campi. Tuttavia c’era il papà, la nonna paterna, gli zii ed i cugini. Per lui era una festa: la libertà.
La vendemmia d’autunno cominciava così. I filari di viti, carichi di grappoli d’uva nera e bianca sfilavano dritti, circondando la casa di intonaco chiaro di calce , a due piani. Quattro stanze separate l’una dall’altra da una scala centrale in cui lui curiosava a scoprire gli oggetti che c’erano, le ceste e gli attrezzi da lavoro nei campi. La vigna era grande e l’aveva acquistata il nonno in tempi migliori. A lui, ch’era solo un bambino, sembrava ancora più grande, immensa. Con le piccole forbici che gli avevano dato, saltava da un lato e dall’altro a tagliar grappoli d’uva e a infilarli nella cesta di vimini. Ognuno aveva il suo compito: chi a staccar grappoli, chi a portare le ceste sul carro. Il sole, ormai, era alto su in cielo, il caldo un pochino più forte. Tutti a far colazione! Seduto sui gradini di ingresso alla casa, lui si beveva l’acqua cavata dal pozzo, limpida e fresca della sorgente. Mangiava il panino che gli dava la nonna senza far storie perché tutta quell’aria e la luce gli davano grande appetito.
Giocava, correva, saltava, poteva finalmente libero sudare. Quando il cielo cominciava a sbiadirsi ed il carro era oramai pieno di ceste, lo zio Dino lo portava nel naviglio che lambiva l’estremità della vigna. “Cavo nuovo” era il suo nome. L’acqua era pulita ma non calda, trascinata da una lieve corrente. Lo zio, che nuotava e si tuffava benissimo, lo teneva su con le braccia per insegnargli a galleggiare sul filo dell’acqua. Lui non aveva nessuna paura, si fidava dello zio e questi, soprattutto, mostrava di avere fiducia in lui e per questo in quel giorno settembrino si sentiva felice, non aveva paura. Sentiva di essere amato così come era, senza pretese. Lo zio lo trattava alla pari, come fosse già grande. Per questo gli volle sempre un gran bene e si stimarono molto anche quando il tempo passò e lui divenne più grande e lo zio più vecchio. Non se lo dissero mai perché non ce ne era bisogno. Ai primi segni di buio il cavallo che trainava il carro si fermava all’ingresso di casa. Scaricate che eran le ceste piene di uva, si portavano nella cantina, pronte per essere lavorate dal papà e dagli zii per farne bottiglie di vino per l ‘inverno imminente. Stanco,la sera, dentro al suo letto-divano, si addormentava quasi subito, con la mente piena di luce, di sole, di acqua e di amore, portandosi via un giorno di libera gioia. La vecchietta coi bianchi i capelli e dalla snella figura aveva chiari occhi e vivaci . Lui la chiamava “la nonna del nonno” per la semplice ragione che aveva ancora vivente il marito, il nonno materno; la nonna paterna, invece, che portava lo stesso nome, era da tempo vedova. Aveva lavorato nelle risaie e curato la casa. Abilissima nel catturare le rane. Munita di una lunga canna e facendo schioccare la lingua, le prendeva al volo e le ficcava in un sacchetto tenuto legato alla vita. Lui, che talvolta la accompagnava nei campi, rimaneva estasiato. La nonna gli calzava sul capo un cappello perché l’afa del pomeriggio gli scaldava la testa. Lei, invece, portava, a protezione, sopra i capelli, un panno annodato all’indietro. Poi, finito il lavoro, decapitate le rane, vedeva, incredulo, i loro corpi muoversi freneticamente senza la testa, come fossero ancora vive. Quindi la nonna faceva la frittata oppure il brodo leggero o, infine, ne friggeva alcune. Se capitava che fosse malato, sdraiato , nella penombra della controra, la nonna del nonno , inforcati gli occhiali, seduta al suo fianco, gli leggeva favole e storie. Il “Cuore” di Edmondo De Amicis con i suoi racconti del mese: Dagli Appennini alle Ande, La piccola vedetta lombarda, Lo scrivano fiorentino, Il tamburino sardo, ecc, furono a lungo i cari compagni di quei caldi pomeriggi d’estate. Lui ascoltava le avventure che uscivano dalla voce gentile di lei, un po’ ottenebrato per la febbre che aveva. Calda la voce, appassionata, gli arrivava alle orecchie. Leggeva sicura, senza esitare, quasi una prova d’attrice. Lei, che si era fermata alla terza elementare, amava la lettura e tale era la sua partecipazione, in quei momenti di cura al nipote malato, che lui stesso ne rimase per sempre contagiato. Così, anche in tempi successivi, fin da ragazzo ed adolescente, lesse le storie di Verne e Salgari con grande passione e finiva col lasciarsi portar via dal sonno col pensiero infilato in quelle vicende che lo conducevano lontano nella fantasia di un altro mondo, lontano, diverso dal suo. Quella snella figura di canuta vecchietta,che sempre mostrò grande stima ed affetto per lui, feconda compagna di grande letture, dai tratti eleganti e d’animo buono, gli rimase anch’ella per sempre nel cuore, lasciandogli amore per i libri e per la lettura come compagni di vita. Inconsapevole, ma grande ed amorosa educatrice. Suo padre, nei rapporti con lui contò, assai poco, essendo del tutto dominante la madre. Era un impiegato di bell’aspetto, casa e lavoro. Nient’altro: tutto decideva la moglie. Proveniva da una famiglia che era stata benestante, in passato. Lui non aveva conosciuto il nonno paterno. Ma aveva imparato a saperne ogni cosa dai racconti che ne faceva sua nonna, che nutriva verso il marito una specie di venerazione. Questi aveva studiato: era chimico-farmacista. Vita difficile, la sua. Era nato negli anni settanta del XIX secolo e, come spesso si usava, fu mandato in seminario da ragazzino; così, tra l’altro, avrebbe potuto studiare. Giunto il tempo di prendere i voti, si convinse di non essere veramente vocato alla vita del prete e se ne andò. Non fu compreso né accettato dai suoi. Era del resto la fine del 1800. Si trovò solo e senza soldi. Riuscì ugualmente a studiare lavorando, sposarsi e mettere su famiglia,dando alla moglie ed ai quattro figli un insperato benessere. Fu sempre un socialista riformista umanitario. Morì troppo presto e ,dopo, il loro benessere andò scemando. Quella nonna paterna, sebbene moglie di un prete fallito, divenuto laico e socialista, era assai religiosa, devota alla chiesa ed ai suoi riti. Capitò così che il venerdì santo la mamma lo preparò per bene: giacca, camicia e cravatta e i pantaloni corti all’inglese. Giù, nell’androne di casa, la nonna, con la zia, lo aspettavano già. “Forza, sbrigati,che siamo in ritardo.” Entrambe vestite eleganti, di scuro, la nonna portava persino un cappello con la veletta davanti. Dovevano andare giù in Duomo, la chiesa più grande, tutti quanti a picchiare “i giudei”. Così, testuale, gli fu raccontata la cosa. Sembrava un fatto del tutto normale.
Lui non sapeva,non poteva sapere l’enormità di sta storia. Era il vespro oramai e la grande chiesa era quasi buia. La gente si era accalcata presso l’altare. Lì davanti eran poste le panche, di solito usate dai fedeli per pregare e recitar orazioni. Ora eran state tutte quante capovolte all’insù, si distribuiron legnosi bastoni a ciascuno, lui compreso, bambinetto innocente. Al via del prevosto, si levò un inquietante frastuono del rumore dei bastoni sbattuti con forza sulle panche girate, simbolo dei giudei deicidi. Rimbombò tutta quanta la chiesa. Lui si scordò come e quando il tristo rito finì, anzi, per fortuna, dimenticò tutto quanto. Il ricordo riemerse solamente molto più tardi, in età già matura e finì col provare un forte ribrezzo al pensiero che tutto quello fosse potuto accadere all’inizio degli anni cinquanta, a guerra appena finita, disvelati da poco, nella loro atroce crudezza, i campi nazisti di sterminio del popolo ebraico. Il tragico rito fu abolito solo con il Concilio vaticano secondo ed il Papa Giovanni. Ripensò molte volte a quella vecchietta di nonna, ignara del male che poteva fare al suo nipotino e definitivamente comprese quali danni assai gravi fece in passato e tanti ancor oggi ne fa, la religione che fomenta l’intolleranza, usando di persone ignoranti. Fu forse anche per questo, perché nel subconscio simili tristi esperienze sedimentarono a fondo, che lui fu, da grande, laico, agnostico e poi comunista. Quando lui venne al mondo, la miseria c’era davvero. Pochi soldi, poco di tutto. Anche oggi quanto a crisi non si scherza per niente. Disoccupazione, giovani senza speranza, diritti conquistati in anni di lotte sistematicamente cancellati. Son dominanti precarietà di lavoro e di vita. A quei tempi, tuttavia, si era poveri in canna. La guerra distrugge , lascia solo macerie, lutti ed infiniti dolori. Lascia anche però, a differenza di ora, aperto lo sguardo su di un mondo da crescere che si poteva vedere negli occhi di tutti , come fosse ciascuno un ragazzo con la vita dinnanzi ed un futuro che è lì che ti aspetta. Tutto questo quand’era bambino, segnava molto le condizioni di vita dei più. Non di tutti, però. Anche allora c’era chi riusciva a star meglio . C’era chi, con la guerra, ci aveva fatto pure i denari. Le casse di acqua Bognanco, minerale gasata, le vedeva passare davanti affacciandosi sull’uscio di casa, portate da due giovanotti, già al lavoro per guadagnarsi la vita. I due fratelli, coetanei suoi, che abitavano lì nella casa di fianco alla sua, stavano bene, avevano persino una camera tutta per loro e si bevevano quella splendida acqua fresca e frizzante con le bollicine. Capitò così che una volta gliene fecero bere un bicchiere. Pizzicava giù nella gola ed anche un poco nel naso. Provò un piacere assoluto e ne rimase affascinato , compreso quel lieve ruttino che spontaneo sgorgò, non appena bevuto. A lui tutto ciò non era concesso. Semplice acqua pesante del rubinetto,al massimo con le polverine, senza nessuno dei piacevoli effetti che aveva provato. Troppo poveri per potersi permettere qualcosa di più. Lui capì, capì subito , in modo del tutto istintivo, che lui e gli amici, vicini di casa, non erano uguali. Capì quasi subito cioè che la vita dei poveri e degli sfruttati, di chi vive solo del proprio lavoro, non può trascinarsi, rassegnandosi a “bere l’acqua del rubinetto” per sempre. Intuì che bisognava e si poteva fare qualcosa per cambiare lo stato di cose esistente, per fare migliore ciascuna esistenza. Fu dunque problematica infanzia, la sua. Fu forse anche da qui, da queste modeste sapienze, imparate da piccolo sulla sua pelle, che nacque il percorso di tutta una vita dalla parte degli ultimi, passata poi a lottare ogni giorno per conquistare finalmente il diritto di potersi permettere “di bere l’acqua gasata” che corre giù in gola, ti pizzica il naso e ti provoca quel gioioso ruttino. Simbolo di giusta pretesa ad un poco di felicità per ciascuno. Senza mai abbassare la testa o subire comandi da piccoli o grandi padroni. Con la schiena diritta. Dunque, acqua gasata per tutti!

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Kalòs k’agathòs o del mito eroico

“Ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale, restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che avrebbero voluto togliere agli operai l’interesse per la cultura antica”.

  1. Mehring, Vita di Marx cap.XV.

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Dalla stazione arrivava al liceo. Un palazzone ottocento, oggi molto malmesso. La mattina, si presentava sempre in ritardo, quando la campanella già stava suonando. Il Preside, ritto in piedi alla fine dello scalone, lo guardava con aria di rimprovero, ma non diceva niente. Forse si era abituato anche lui. Grandi aule con la cattedra, su, in alto, posata sopra un vero e proprio piedistallo e i ragazzi, nei banchi, giù, piccoli, piccoli. Per cinque, decisivi anni, risalì in lungo quel possente corridoio classicheggiante, scalando le aule, una dopo l’altra, sino ad arrivare all’ultima, laggiù in fondo, alla terza conclusiva. Per molto tempo, dopo, continuò a sognare quell’esame finale, fatidico e crudele. Tutte le materie sia scritte sia orali, compresa la micidiale versione dall’italiano in latino ed i riferimenti dei due anni precedenti. Alle sei i muratori cominciavano il loro lavoro. Li vedeva di fronte, dalla finestra aperta della sua camera, a torso nudo, cazzuola, calcina e mattoni, come si usava una volta. Stavano costruendo l’istituto tecnico commerciale proprio lì davanti.
Iniziavano così presto perché era una estate caldissima e cercavano di utilizzare le ore più fresche della giornata. Forse anche per questa esperienza di comune, sebbene diversa, fatica, che lui la pensò sempre come Antonio Gramsci ( Quaderni dal carcere; quaderno 12): “occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.” Non si pentì mai, comunque, di esser passato per quel duro percorso formativo; anzi ne era orgoglioso. Scuola dura, selettiva, autoritaria. Quarta,quinta ginnasiale, esame di ammissione al liceo e poi prima, seconda e finalmente terza! Però, altro che inutilità! Per questo più tardi decise di laurearsi con una tesi in diritto romano, come ultimo atto di estrema ribellione e di affermazione della assoluta utilità dell’inutile apparente. “Il latino non si studia per imparare a parlare in latino, ma per imparare a studiare.” E’ancora Antonio Gramsci che ci guida sulla strada della corretta comprensione delle cose. Nero, lungo oltre le ginocchia era il grembiule che le ragazze portavano allora. Niente gambe da vedere. Non se ne parlava proprio. Qualche sbirciatina sopra il ginocchio. Era il dominio della fantasia. Pochi alunni, una cerchia ristretta. Un po’ di borghesia di provincia. Figli di professionisti e imprenditori. Per questo lui, che non era figlio né degli uni né degli altri, ma di un povero “travet” monoreddito, continuò a sentirsi un po’ obliquo, mai pienamente integrato. Tutti al tennis club, molto di moda allora. Tennis, piscina, bella vita. Lui no, la sua famiglia non aveva i soldi per l’abbonamento. Così, lui per stare con gli amici, ci andava di sghembo, ospite , nascostamente. Obliquo, appunto. All’acqua gasata continuava a non avere diritto. Lui studiava con fatica. Grandi “remate”, come si diceva allora, per tenere a galla la barca. Ma se la cavò sempre. L’insegnante di lettere del ginnasio era una brava insegnante, ma troppo esigente. Giovane, rossi i capelli, molto preparata. In quei due anni lo fece molto soffrire, gli cavò l’anima. Non la dimenticò mai più. Forse se ne era persino invaghito, una specie di sindrome di Stoccolma. Fu lei a guidarlo nelle prime letture. “Il giovane Holden”, ” Il sentiero dei nidi di ragno”, “Il partigiano Johnny”. Quando hai sedici anni queste prime esperienze ti aiutano a comprendere che esistono modi di vedere le cose che sono diversi. Ti si apre la testa e capisci che non sarà più possibile fermarsi per sempre lì, tra il catrame borghese dei luoghi comuni che ti stanno ogni giorno d’intorno. Ci si divertiva anche, però. Lunedì pomeriggio. Il solito rigido inverno. Il freddo pungente arrossava le gote. Cappotti,sciarpe , guanti e scarnebbia. Niente storia dell’arte quest’oggi. Si salta tutti la scuola. L’Angelo, il Gianni, il Momo, il Gino, Giovanni Edonè, l’Albertone , così grande e grosso e lui “il biondo”, di buon passo, ingobbiti in se stessi per il gelo che c’era, alle tre, quindici per esser precisi, si era già lì, seduti in platea, a vedere un film scollacciato nella spasmodica attesa della rivista che poi sarebbe iniziata. Solo loro e qualche barbiere, che il lunedì chiudeva bottega: questo era il pubblico. Le ballerine finalmente sfilavano in passerella con le gambe un po’ troppo cicciotte, le calze a rete smagliate qua e là ed i seni da balia. L’Albertone, in piedi, con le braccia allargate, gridava: ” Divine!” Poi lanciava sul palco il mazzo di fiori che aveva comprato come omaggio alla loro avvenenza. Qualche risata, qualche “darsi di gomito”, niente di più succedeva in quei lunedì trasgressivi, pieni solo di vita, di illusioni e di voglie. “Vieni fuori carino!” gli disse la prof. di chimica e scienze, quel mercoledì delle ceneri. “No che non esco. Ieri era festa, sono andato a ballare al Cagnoni. Il martedì grasso si balla, non si studia. Lei non mi deve chiamare oggi: no che non esco!.” “Allora ti prenderai un bel tre”. “Non è giusto” protestò inutilmente. “Lei è solo cattiva con me!”. “Vattene” disse “esci di qui, sii più rispettoso”. Così se ne andò a fumare nel “cesso”. Lì fumavano tutti e, dopo l’intervallo, se si apriva quella porta di legno, uscivano grandi nuvole bianche. Aspettò che quell’ora finisse. Ecco, lui era così: era, a suo modo, un ribelle, un pacato ribelle; non gridava, non litigava, ma non accettava imposizioni di alcun genere. Semplicemente disubbidiva. “Carlo Marx” lesse ad alta voce il professore di storia con quella voce profonda che aveva, aprendo la scheda . Si votava il capo-classe a scrutinio segreto. Lui pensava che si trattasse di una fesseria totale, che non si potesse prendere sul serio a quasi diciotto anni una cosa del genere. “Sei stato tu” gli gridò il prof., guardandolo in faccia. Sapeva benissimo, infatti, come lui la pensava e che si sarebbe comportato così. “Ma ti avverto che il voto è nullo. “Si, va bene prof.” e pensò: “ma chi se ne frega!” Ecco restò sempre così, di traverso alle regole, nemico delle gerarchie e dovunque poi si trovasse nella vita, non ebbe padroni. Mai. Era obliquo davvero, ecco cos’era. Quel caldissimo luglio del ’65 gli cadde addosso così,all’improvviso. Finito anche quell’anno di scuola, ancora stordito dalle fatiche di studio, imbevuto dei miti che gli avevan spiegato, immerso negli omerici esametri, non gli uscivano ancora di mente i fulgidi versi dell’addio straziante di Andromaca a Ettore, che sa di andare verso un destino nefasto, eterno dilemma tra affetti e dovere: “Ma di gran pianto Andromaca bagnata accostossi al marito e per la mano stringendolo e per nome in dolce suono chiamandolo proruppe- oh troppo ardito! Il tuo valor ti perderà nessuna pietà del figlio e di me tu senti.” E poi Ulisse, che se ne va sulle onde del mare a cercare di sapere sempre di più, divenne un compagno di sogni. Gli rimase quel vizio di andare a vedere le cose del mondo. E di viaggi ne fece anche lui, tanti, in ogni parte del mondo. Il più bello di tutti in Namibia per la straordinaria bellezza dei luoghi e perché c’era sua figlia con lui a dividere emozionanti tramonti, soli calanti, rosse dune, leoni, zebre e giraffe, foche dell’oceano Atlantico e bianche notti di luna, sperando poi che la figlia potesse ricordare quei giorni col padre, custoditi per sempre in memoria, anche quando poi lui sarebbe dovuto per sempre andar via. Ma in quel luglio bollente, estive vacanze di fuoco, restava loro, negli occhi stupiti, la voglia dei baci, mille e poi mille di Lesbia e Catullo e fu così che tanti se ne scambiarono, di baci d’amore. Lui, novello James Dean dagli occhi celesti, lei giovane donna dal nome spagnolo, grandi le mani ed il cuore possente. Loro scendevano giù, verso il fiume, inforcando, veloci, le bici e, nell’attesa, già cominciava il piacere, consumato più volte fino a non farcela più sulla spiaggia di sabbia che si era formata e, poi, via, a bagnare nell’acqua quei corpi spossati. E poter quindi fumare e tutto aspirare quell’acre sapore che il fumo ti da’. Quella sera lui aspettò. Lei si calò giù dal balcone di casa, sulla bici andarono a passare la notte da lui. Se ne tornò che era l’alba, non c’era nessuno, l’afa ancora non era passata. Si sentiva padrone del mondo, come Achille che, vincitore, rientra alla tenda dopo uno scontro guerriero. Aveva il futuro davanti. Infine andava a sedersi nel niente del bar, in piazza Ducale, all’Haiti, dove c’erano tutti. 23 luglio 1965 e Gimondi vinse il giro di Francia. I cinque anni stupendi finirono lì , con il Gino si regalò a S. Siro Inter /Indipendiente, finale di coppa del mondo.

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KALLIPOLIS o del bisogno dell’utopia,oltre il naufragio.

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Il treno partiva un quarto alle otto. Lei, la Graziella, percorreva l’allea che porta alla stazione, avanti e indietro, ad incrociare i pendolari che partivano ed arrivavano . Dava loro quel foglio ciclostilato, firmato Federazione giovanile comunista. “Giù le mani dal Vietnam!” era il titolo. La rivide poi spesso negli anni successivi e collaborò con lei facendo il lavoro che il partito comunista, in cui entrambi militavano, chiedeva loro di fare. Personaggio un po’ ruvido, intransigente nei principi, compagna combattente. La rivede ancor oggi, di tanto in tanto, entrambi invecchiati ed inclini al ricordo nostalgico del tempo che fu. La vita ha segnato, sia pure in modi diversi, il percorso di entrambi, scavate le rughe del viso ed imbiancato i capelli, ma, per fortuna, fermi rimangono i convincimenti di allora, seppure adeguati ai tempi correnti. Lui ritirava quel foglio e se lo leggeva, mentre il passo affrettava per raggiungere il treno che andava a Milano. Studenti, impiegati, operai che giocavano a carte,ma che discutevano anche della politica di allora e molti tenevano l’Unità nella tasca di quel loro giubbotto. Scendevano alcuni alla periferia di Milano per lavorare alle ceramiche Pozzi, altri, alla stazione di S.Cristoforo, si disperdevano verso i luoghi delle loro fatiche. Puntuale passava il tram numero 12. Saliva, spingendosi un poco tra la folla, per farsi portare in piazza del Duomo. Quella volta, arrivato in via Larga, lo travolse un fiume di gente. Era un corteo di operai dell’Alfa Romeo. Dimenticò all’improvviso il dovere di andare a sentire la lezione e la folla di uomini in tuta e di donne con cappellini e fischietti lo prese e lo trascinò via con sé. Gridando gli slogan che chiedevano il nuovo contratto, giunsero in fretta in fondo alla via e lui, tra quegli uomini grandi, sembrava un fuscello chiuso dentro il soprabito, giacca e cravatta e tra le mani la cartella coi libri. Temette persino di esser scambiato per un poliziotto in borghese infiltrato tra loro e gli venne anche un po’ di paura. Per fortuna nulla successe ed in breve tutti furono dentro il teatro, che chiamavano Lirico. Si sedette su, in alto, e ascoltò tutto quanto: gli interventi dei sindacalisti, le parole dei delegati ed infine da soli o a gruppi di amici e compagni li vide disciogliersi e sparire dentro il cuore della grande città. Qualche mese più tardi da quell’episodio, scoppiò la rivolta. Quel luogo di studio silenzioso e ubbidiente che era stata quella università divenne un fermento di lotte. Gli capitò così di trovare comunisti dovunque e ne rimase piacevolmente sorpreso. Troppo tempo era rimasto il solo in quel liceo borghese che gli sembrava impossibile che tutto ora all’improvviso esplodesse, ribaltando ogni senso comune o conforme pensiero. Ma questo accadde e restarono segni profondi in ciascuno e nella vita di tutti,cambiando davvero le cose, ma anche lasciando scie di dolore e tragedie in un paese lacerato tra tremendi conflitti che segnarono la storia di tutti quegli anni. Quel giorno fece tardi per andare a lezione e troppo presto per prendere il treno. Ritornò sui suoi passi e camminando si avviò alla stazione. Passeggiava lentamente a guardar le vetrine e tempo ne aveva. Corso Torino, Cesare Correnti, corso Genova. Era così giovane allora. Giunto che fu a Porta Genova, si sedette nel bar per l’attesa. Come sempre era solo, non parlava a nessuno e all’Università non riusciva a fare amicizie. Si era solo concessa, quel giorno, quella strana devianza nel corteo operaio, ma ne era contento. Prese quel libro che stava leggendo, lo ricordava ancora benissimo a distanza di anni: The Dubliners di Joice ed a quel tempo già aveva letto i Buddenbrok di Thomas Mann e la Coscienza di Zeno di Svevo, testi che rimasero in lui per tutta la vita. Però non riusciva a liberare il suo cuore dal malinconico malessere che gli era sempre compagno in quelle giornate . Non capiva e non sapeva il perché, ma lui non era felice. Finalmente il treno partì, tornava nel ventre materno della sua città. Gli venivano incontro le fabbriche che ancora esistevano e poi , un poco più oltre, qualche campo, qualche prato che era rimasto. Il cielo era azzurro e lui pensava tra sé che gli sarebbe piaciuto fermarsi lì, in mezzo a quei prati verdi,smetterla di correre, sdraiarsi a guardare il cielo e parlare un po’ da solo, tra sé, come ad un amico e provare a vincere quel male di vivere che impediva anche a vent’anni le gioie. Ma un giorno, al quarto giro dei portici della bella piazza,di colpo si fermò. Era d’inverno: l’inizio d’inverno. Il solito cielo grigio, un po’ di nebbia si era infilata persino lì. Ormai aveva iniziato il secondo anno della facoltà di Giurisprudenza ed ogni giorno si ripeteva la stessa storia: lasciati i libri, se ne andava in piazza ed incominciava a girare, passeggiando con qualche ex compagno di scuola lungo i benedetti portici. Passavano le ragazze. Sembrava che esibissero le loro qualità fisiche e si commentava, sorrisini , valutazioni,come fossero merci in vendita. Si andava avanti così, senza senso. Per questo ,quella sera, si fermò:non ne poteva più, basta girare a vanvera,si disse. Ebbe precisa la sensazione anche fisica del tempo che andava perduto,che si stava bruciando una intera gioventù dentro il niente. Anche lo studio gli pareva a poco servisse : così fine a se stesso, un po’ di costituzione, qualche nozione di procedura. Il diritto romano, l’unica vera passione sincera. Ma perché, per che cosa ?
La luce era poca, il cielo si era fatto più scuro, forse sarebbe nevicato tra poco. “Ragazzi, io mi fermo qui” disse agli amici che lo accompagnavano in quel preciso momento. Si strinse in quel cappottone che aveva, salutò e si allontanò. Non li vide praticamente mai più, voleva smetterla di lasciarsi vivere. A quei tempi era già comunista. Lo era diventato un poco per volta. Frugando tra i libri ed i cassetti di suo zio Peppino gli capitarono tra le mani vari numeri di Rinascita. Li lesse anche se non tutto riusciva a comprendere; a quei tempi faceva ancora il liceo. Sentiva, assorbiva i discorsi di lui e piano piano costruiva il suo mondo ed i suoi riferimenti ideali: la Resistenza, la Costituzione, Carlo Marx, struttura e sovrastruttura, Palmiro Togliatti e la “Strategia di una politica”, libretto che rinvenne là tra quelle carte. E poi gli operai, visti più volte passare sotto casa il 1° maggio, al mattino, in serrato e numeroso corteo coi loro grandi cartelli e le voci, elevate a gridare giustizia. Capì presto, dunque, che quella era la sua parte, la parte dalla quale egli doveva stare. Proprio là sotto quei portici della piazza, vicino al bar, avvicinò l’Emilio per chiedergli cosa dovesse fare per iscriversi al Partito. L’Emilio indossava un vecchio, sgualcito montgomery blu, uno spelacchiato colbacco in testa ed una rossa sciarpa al collo. Gli disse:” Aspetta, frequenta con me la sezione, poi deciderai.” Dentro quella piccola stanza che era la sezione Gramsci, scaldata con la bombola a gas e l’aria viziata dal fumo, si trovavano quelle venti persone la sera di ogni venerdì della settimana. Il Gianni , con i suoi grandi baffoni,la prendeva alla larga: dal mondo e dalla coesistenza pacifica, all’Italia ed alla via italiana al socialismo e poi al compromesso storico ,alla giunta locale e, di seguito, giù, giù, fino alla ” Gambolina” mitico quartiere operaio, indimenticate case popolari. Poi, alla fine, ci diceva:”Allora domenica tutti qui alle nove “senza fallo”, che si va a portare il giornale.” Da allora infinite furono quelle domeniche mattina quando, fianco a fianco, si diffondeva l’Unità, casa per casa. Insieme, lui, il Gianni, l’Emilio,l’Antonio, il Fiorenzo, il Gino, il Marco, mai dimenticato prezioso compagno di lavoro che ci lasciò troppo presto e tanti altri condivisero soprattutto un’idea: l’idea che si potesse lottare per costruire un mondo nuovo, fondato su di un rinnovato umanesimo, che abbattesse le consolidate gerarchie ed ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Una nuova primavera verso una società più uguale ed una più genuina libertà per gli esseri umani. Esattamente questo significava per loro essere comunisti e comunisti furono fino in fondo. Poi, altre sere, ci si trovava in quella osteria, là nella strada in fondo alla quale c’era la grande fabbrica tessile. Una saletta, si tirava tardi a parlare, una sigaretta via l’altra, di rivoluzioni da fare, di movimenti da costruire, di masse popolari. Infine, l’Emilio cantava le sue canzoni di lotta, chitarra alla mano e mezzo bicchiere di vino. Lui arrivava sempre più tardi. Allora insegnava diritto alle scuole serali per pagarsi le tasse ed i libri. Non beveva, era astemio, ma gli piaceva cantare ed aveva speranze. Ancora più tardi, talvolta, bidone di calce e pennello, si andava a fare le scritte di lotta sui muri. Il buio era fitto, si procedeva a tentoni in assoluto silenzio. Il passo felpato. Il Vittorio aveva un passamontagna, l’Emilio il solito colbacco spelato. Sul muro di cinta di quella sede cattolica la scritta fu più lunga del solito, ma sgorgò inarrestabile dal profondo dei cuori. “Il popolo soltanto il popolo è il motore e creatore della storia universale” Mao Tse Tung. Il giorno dopo, uno di noi, sentì che al bar ancora si parlava della chilometrica scritta e subito:” Non sono stato io, non siamo stati noi” senza che nessuno gli avesse neppure mai contestato un bel niente. “escusatio non petita, accusatio manifesta”. Da allora quel tizio fu chiamato ed ancor oggi è chiamato Rommel (la volpe del deserto). “Kallipolis”, dunque, la bella città, che appariva là, in fondo, all’orizzonte,dinnanzi ai loro giovani occhi. L’utopia cui tendere per dare una ragione al presente ed una speranza al futuro. Ecco cosa furono quegli anni: furono i migliori anni della loro vita, i migliori anni della sua vita!
UN COMUNISTA A VIGEVANO
Viaggio dell’anima
ITACA
“Se cerchi la tua strada verso Itaca Spera in un viaggio lungo Avventuroso e pieno di scoperte I Lestrigoni e i Ciclopi non temerli, non temere l’ira di Poseidone.
Pensa a Itaca, sempre, il tuo destino ti ci porterà. Non hai bisogno di affrettare il corso, fa’ che il tuo viaggio duri anni,bellissimi, e che tu arrivi all’isola ormai vecchio, ricco di insegnamenti appresi in via.
Non sperare ti giungano ricchezze: il regalo di Itaca è il bel viaggio, senza di lei non lo avresti intrapreso, Di più non ha da darti.
Costantino Kavafis