Piccolini: i carcerati interpretano sé stessi. E lo fanno benissimo

Probabilmente la maggior parte di noi pensa che il carcere della frazione Piccolini sia solo un blocco di cemento. Enorme, apatico, lontano. Dentro i detenuti, criminali che meritano di stare dove si trovano. Eppure i carcerati, qualunque reato abbiano commesso per meritarsi la pena, sono persone come tutti. Il concetto sembra così semplice, certamente non scontato. Il regista Mimmo Sorrentino, anche se non fosse stato un suo obiettivo, è stato capace, con lo spettacolo intitolato “Terra e acqua”, di levare il salame dagli occhi a molti. Un’opera teatrale nel carcere, sul carcere, animata da carcerati. Una meraviglia di spettacolo, in senso aristotelico si intende. Capace cioè di spingere oltre la nostra innata curiosità (meravigliare appunto), fino alla ricerca della verità. Verità che è nello spettacolo stesso. Siamo stati a vedere la pièce nell’ultimo giorno disponibile, mercoledì 4 luglio, terza replica dopo le recite di lunedì e martedì, sempre alla casa circondariale dei Piccolini. Tuttavia Sorrentino, pur avendo alle spalle anni di esperienza (è regista di diverse opere teatrali di fama nazionale), emanava un forte senso di ansia. Da professionista quale è, ogni replica è come fosse la prima recita. La trepidazione del regista era inoltre ampliata a causa del cattivo tempo, minacciante temporale estivo. Alla banale domanda rivoltagli da uno spettatore, «e se piovesse?», Sorrentino si è fatto portavoce dei suoi attori, rispondendo: «I ragazzi dicono che non hanno problemi, se non grandina da dare fastidio recitano». Più professionali dei professionisti, non c’è che dire. Come spiegato dal regista stesso l’opera, realizzata in sole venticinque ore di prove, ha avuto l’obiettivo «di dimostrare che anche in carcere sia possibile fare teatro, oltre a voler fare con la stessa arte una metafora del dentro/fuori». Dentro, perché recitata in reclusione ma fuori, perché un’arte libera capace di far scaturire, e trasportare, le emozioni. Il primo impatto con l’opera è stato davvero forte: i quaranta spettatori presenti (limite massimo), sono stati fatti accomodare nel piazzale dell’“ora d’aria”, su delle sedie sotto un tettuccio riparatore. Il cielo era nuvoloso, di quelle nuvole nervose, gonfie. La decina di detenuti/attori, mentre il pubblico prendeva posto, camminavano come pendoli per il breve spazio del piazzale: avanti e indietro, avanti e indietro. Occhi seri, in visi contratti di diverse nazionalità, osservavano gli astanti. L’atmosfera era completata da una musica, a volume elevato, allo stesso tempo tenebrosa e gloriosa. Qualcosa come la colonna sonora del film “Il Gladiatore”, per intenderci. Mentre lo spettacolo proseguiva non si poteva fare a meno, osservando le facce degli attori, di chiedersi come mai quelle persone fossero in carcere. Uomini semplici, alcuni con la fede al dito altri, più giovani, in abiti sportivi. Barbe curate, sguardi svegli. Abili teatranti, questo è senza dubbio. Passati i primi minuti in un clima di tensione (nulla divideva i carcerati dagli spettatori), dovuti a pregiudizi sciocchi ma inevitabili, la capacità artistica di chi recitava ha trasformato, agli occhi del pubblico, i detenuti/attori in attori e basta. Questi hanno raccontato sé stessi, la prigione ed il loro ruolo di carcerati, attraverso preghiere da loro scritte. L’idea della preghiera è della regia, naturalmente, dato che si tratta di un’espressione libera, più di altre forme di linguaggio. Alla fine la pioggia è arrivata, tuttavia lampi e grigiore hanno reso più raggiante l’interpretazione, rimasta impassibile sotto lo scrosciare dell’acqua piovana. Quegli uomini attori di sé stessi hanno avuto una scenografia naturale ad hoc. La standing ovation finale è stata doverosa. Dopo la recita, gli attori si sono lasciati alle domande del pubblico. Tra una sigaretta e l’altra hanno risposto alle curiosità, raccolto i meritati complimenti e le strette di mano. Padri, mariti, figli, in una parola: uomini. Meravigliosi interpreti di sé stessi.